2 Luglio 2021 Aeropolis Notizie 0

Gli anni ’80 e i comunisti dell’azienda aeronautica di Pomigliano D’Arco.
di Antonio Ferrara (3)
Ho una tale fiducia nel futuro,
che faccio progetti solo per il passato
Ennio Flaiano
In queste ultime settimane c’è stato un ritorno d’attenzione del sistema mediatico per i comunisti italiani. Alla rievocazione del centenario della nascita del PCI e alla scomparsa di Emanuele Macaluso è stato dato dalla stampa ampio spazio, anche i grandi giornali nazionali hanno pubblicato fascicoli e libri sulla storia remota e recente del PCI. (1)
Di questo ritornare a parlare dei comunisti italiani è complice anche il Covid, il troppo tempo speso nell’isolamento ha consentito di ricordare e ricostruire vicende lontane. Tante piccole e grandi storie pubbliche e private vissute in prima persona da gente non più giovanissima, e mai del tutto rimosse dalla memoria.
Sulla storia del PCI napoletano si è scritto e parlato anche troppo; è più che probabile che le copie vendute dei nuovi libri usciti di recente sull’argomento faranno a breve bella mostra sulla bancarella di don Gennaro a San Biagio dei Librai dove si riciclano le librerie private di tanti napoletani ex comunisti e appassionati di storia e politica.
Se poi si leggono le dichiarazioni rilasciate in questi giorni da Antonio Bassolino sulle mitiche figure operaie delle fabbriche napoletane, allora la sensazione è che sulla pista del palcoscenico, dopo oltre un quarto di secolo, ci sia solo una scenografia, nemmeno ritoccata, del già visto.
Lo scopo di questa nota di poche pagine invece è ricostruire una storia minore di cui nessuno ha mai scritto un rigo: le vicende del gruppo dirigente comunista AERITALIA degli anni ‘70 e ottanta.
Leonardo, il nome di oggi della storica azienda aeronautica AERITALIA, è una multinazionale conosciuta e nell’immaginario collettivo è considerata un modello positivo d’industrializzazione. Sarà anche vero, ma i fatti qui narrati risalgono al periodo quando l’Aeritalia si avviava a diventare quell’importante gruppo industriale che è oggi.
Lo sviluppo dell’azienda era caratterizzato, oltre che da importanti investimenti pubblici (Aeritalia era un’industria a Partecipazione Statale), da migliaia di nuove assunzioni negli stabilimenti di Napoli, Torino e Nerviano.
Gli anni ’70 e ’80 furono il periodo durante il quale migliaia di giovani in Italia ebbero accesso alle grandi industrie pubbliche italiane, per la prima volta dopo il boom economico, l’incremento dell’occupazione riguardava anche le regioni meridionali e la Campania.
Nella prima fase, agli inizi degli anni ’70 le fabbriche metalmeccaniche dei trasporti, cantieristica, agroalimentare, siderurgiche, dell’auto e le nascenti industrie aeronautica ed elettronica, si erano riempite di soli operai; poi, negli anni successivi, tra i due decenni, le assunzioni di massa si estesero anche a ingegneri, tecnici, laureati e diplomati.
Era la prima importante risposta della classe politica e dell’industria pubblica italiana alle aspettative giovanili e alla richiesta di lavoro qualificato conseguente alla scolarizzazione di massa.
I giovani assunti oltre che scolarizzati erano anche formati politicamente, molti di loro avevano militato in contesti sociali fortemente conflittuali, per cui, dal contatto ravvicinato con il mondo operaio, fu inevitabile che un gran numero di loro si avvicinassero al PCI e alle sue organizzazioni di fabbrica.
In Campania, l’Aeritalia e in misura minore l’Olivetti di Pozzuoli e Selenia del Fusaro, furono tra le prime grandi aziende pubbliche e private che aprirono i cancelli a molti giovani diplomati e laureati napoletani.
Questo significò per molti di loro la possibilità di non trasferirsi nel Nord industrializzato, l’opportunità di avere un lavoro gratificante e, per la prima volta, l’opportunità di poter fare una vera esperienza formativa internazionale anche in grandi gruppi industriali mondiali.
Tutto questo senza lasciare la città, le famiglie e gli amici.
Questo rinnovamento dell’industria con l’accesso al lavoro delle nuove generazioni avrebbe potuto rappresentare anche un’opportunità per la classe dirigente meridionale e per i partiti di aggiornare la rappresentanza politica che, ben prima dell’intervento della magistratura, aveva dimostrato, di non essere più adeguata a governare la modernizzazione del Paese.
La vicenda del gruppo dirigente della Sezione PCI Aeritalia è uno spaccato di questo scenario, il cui epilogo aiuta a capire che il partito comunista napoletano, dopo il decennio di crescita e successi politici ed elettorali, dagli anni ‘80 si avviava a diventare un soggetto politico nel solco dei partiti dei quali era stato un’alternativa.
Nei gruppi dirigenti provinciali dell’organizzazione, il confronto, le posizioni politiche e le decisioni nell’amministrazione pubblica erano sempre più condizionate da ambizioni e interessi personali di carriera e dalla conservazione di equilibri raggiunti dopo estenuanti mediazioni.
La pratica del potere con la gestione della ricostruzione post-terremoto, una consolidata ed estesa presenza nelle istituzioni, aveva messo in moto quella ‘mutazione genetica’ nel Pci campano che negli anni successivi ha travolto l’intera classe politica napoletana di estrazione comunista.
Nel caso dell’Aeritalia quella deriva fu la causa della fine traumatica dell’organizzazione comunista di fabbrica.
A conclusione di un lungo periodo di difficoltà con la Federazione comunista napoletana, nel 1986, l’intero gruppo dirigente della sezione PCI lasciò la militanza politica e il partito comunista.
Di queste vicende sono rimaste le copie del DECOLLO, il giornale della sezione di fabbrica, tra l’altro quelle recuperate sono digitalizzate e pubbliche su Web, la Biblioteca Nazionale di Napoli ne corserva catalogate copie originali di tutti i numeri stampati.
Testimonianza di notevole interesse è il materiale di una ricerca del 1985 promossa dalla sezione Pci di fabbrica su quella che rappresentò l’indagine sociologica più significative promossa in quegli anni in una grande azienda metalmeccanica italiana.
La vicenda dei comunisti dell’Aeritalia sarebbe finita probabilmente allo stesso modo quando il P.C.I decise di smettere di esistere, oppure, nel 1993, quando i lavoratori dell’azienda di Pomigliano D’Arco vissero una lacerante stagione di lotte sindacali; ma questa è un’altra storia, che dovrebbe essere ricostruita da qualcun altro.
La vicenda della sezione Aeritalia è stata negli anni, e fino a tempi recenti, ricordata nelle discussioni, non solo nostalgiche dei lavoratori più anziani, perché – aspetto curioso della vicenda – quegli stessi comunisti dell’organizzazione del partito, hanno, nei decenni successivi rappresentato quella classe dirigente napoletana dell’azienda che ha contribuito al successo di quei grandi programmi industriali che hanno determinanto la crescita e lo sviluppo dell’aeronautica campana e nazionale.
IL PCI NAPOLETANO E LE AZIENDE METALMECCANICHE
Dalla prima metà degli anni 70, con l’epidemia del Colera e il risultato del referendum sul Divorzio, per la DC e i partiti che governavano la città si aprì una fase di grave crisi politica che avrebbe portato il PCI napoletano, nel biennio 75/76, al miglior risultato elettorale della sua storia.
Napoli aveva eletto sindaco Maurizio Valenzi, e molte città della provincia avevano per la prima volta dei comunisti come primi cittadini. Il successo alla Mostra D’Oltremare della Festa dell’Unità provinciale dopo le amministrative del ’75 e quello straordinario ottenuto dalla Manifestazione Nazionale dell’anno successivo avevano dimostrato quanto erano cresciuti in quei pochi anni il consenso, la partecipazione dei militanti e la capacità organizzativa del partito napoletano.
Dal 4 al 19 settembre ’76 per la prima volta la manifestazione dei comunisti italiani si svolgeva al di sotto di Roma. Nel corso delle due settimane centinaia di migliaia di napoletani visitarono l’immensa area allestita di Fuorigrotta.
Spazi enormi da utilizzare per la prima volta in città per la Cultura, la politica, il Cinema , l’Arte, la musica, il ballo e spazi per giovani e aree per l’intrattenimento dei bambini.
Tre le aree recuperate e dedicate al teatro, Il Mediterraneo, il Teatro dei Piccoli e l’Arena Flegrea, ripulita nei mesi precedenti dai militanti napoletani. Rappresentazioni di artisti che ci piace ricordare tra le tante quella di Eduardo De Filippo e Luigi Nono, Napoli Centrale, Sergio Bruni, Severino Gazzelloni, Rino Gaetano, Lucio Dalla, Antonio Casagrande, Marina Pagano e Achille Millo e testimonianze di artisti internazionali e dai Paesi sudamericani, con il concerto straordinario degli Inti Illimani.
“Nuova impetuosa avanzata del Pci” titolò a tutta pagina l’Unità. Il titolo sanciva il successo dei dirigenti napoletani, durante la Festa il partito impegnò migliaia di volontari, molti giovani, operai e militanti delle sezioni del Centro Storico che gestirono nel corso dei sedici giorni di dibattiti, concerti, film, mostre.
La città del sindaco Maurizio Valenzi che un anno prima aveva guidato i comunisti alla conquista di Palazzo San Giacomo, mostrava al Paese un volto nuovo della città capace di ospitava oltre un milione di persone provenienti dal resto d’Italia.
Nei dibattiti, tra gli altri, Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Pio La Torre e Norberto Bobbio. Ma sono le immagini del comizio di Enrico Berlinguer la sera del 19 settembre, che ancora colpiscono. Una folla immensa: “Il Festival ha saputo dare voce a una Napoli in gran parte ignorata, al potenziale produttivo di questa città, al suo patrimonio artistico, alle sue energie culturali e scientifiche, dando coscienza di ciò che questa città avrebbe potuto dare e potrà dare per lo sviluppo del Mezzogiorno e per l’avvenire di tutta la nazione italiana“.
In città e in provincia, nell’intera Campania il PCI veniva fuori dall’isolamento dei decenni precedenti.
Protagonisti del successo della manifestazione i tantissimi giovani che avevano gestito l’organizzazione e le numerose attività della kermesse e le migliaia di operai delle aziende napoletane che nei mesi precedenti, con il lavoro volontario avevano allestito gli spazi fieristici.
I successi elettorali e organizzativi avrebbero richiesto un rapido rinnovamento generazionale del quadro dirigente e un’apertura incondizionata del partito a quei pezzi di società che speravano in un cambiamento reale della città.
Nelle imprese metalmeccaniche la presenza organizzata del partito era consolidata da solidi legami con gli operai costruiti nei decenni precedenti quando nelle fabbriche era fortissimo lo scontro con il padronato. Un contesto quindi che nelle fabbriche napoletane non favoriva il rinnovamento delle organizzazioni di base e le relazioni generazionali tra i lavoratori.
Nell’area industriale di Pomigliano D’Arco dalla seconda metà degli anni 70 le grandi imprese metalmeccaniche pubbliche al fine di riposizionarsi nei mercati di riferimento e conquistare nuovi spazi di mercato avviarono una complessa ristrutturazione che in poco tempo determinò una profonda traformazione delle fabbriche e del territorio.
Le aziende napoletane per rinnovare i prodotti ed elevare la soglia tecnologica ammodernarono rapidamente gli impianti e il sistema produttivo. Per la prima volta furono significativamente estese le aree tecniche e di progettazione che indussero profondi cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nel sistema delle relazioni industriali.
Per interpretare le trasformazioni conseguenti ai processi d’ammodernamento dell’industria, i partiti di sinistra e il sindacato avrebbero dovuto estendere i gruppi dirigenti politici a quelle nuove figure professionali.
Invece nelle fabbriche tra i partiti di sinistra e i sindacati era consolidato un equilibrio della rappresentanza prevalentemente costruito sul prestigio e l’esperienza dei vecchi militanti. Tra gli operai c’era ancora una lontana diffidenza verso tecnici e impiegati.
Non aiutava l’integrazione il meccanismo che allora regolava l’ingresso dei nuovi assunti nelle aziende. Il sistema dei partiti e il crescente potere sindacale controllavano in sostanza le assunzioni di operai, non solo nei grandi gruppi, attraverso la gestione delle commissioni di collocamento, la legge 285 del 1977 per l’occupazione giovanile e poi con i movimenti dei disoccupati organizzati.
Le aziende selezionavano quasi esclusivamente laureati e diplomati, anche se, nelle imprese a partecipazione statale, queste assunzioni risentivano pesantemente delle ingerenze dei partiti.
L’ingresso di un gran numero di laureati e diplomati portava nelle fabbriche giovani napoletani politicizzati nell’impegno nei quartieri, le scuole e le università, diversi avevano militato in contesti radicali non sufficientemente lontani da quegli ambienti che alimentavano il fenomeno del terrorismo che in quegli anni puntava a raggiungere i lavoratori delle grandi industrie.
L’attenzione dei comunisti per i gruppi dirigenti delle fabbriche importanti era quindi altissima, perché alto era il rischio che l’eversione vi trovasse dei varchi.
Quella scelta del sindacato e delle organizzazioni del PCI d’isolare i terroristi nelle fabbriche si rivelò poi decisiva nella sconfitta del fenomeno e la difesa della Democrazia.
I gruppi dirigenti di fabbrica, dalla seconda metà degli anni 70, quando i movimenti giovanili antagonisti avevano dimensioni di massa, dovevano salvaguardare le condizioni di agibilità politica conquistate nelle imprese, includere le nuove generazioni e orientarne la volontà di cambiamento verso la trasformazione dei rapporti politici e di potere, sia nella fabbrica sia nell’insieme della società italiana.
Il PCI nelle fabbriche necessariamente procedeva nel rinnovamento delle organizzazioni con moderazione e continuità; la linea era cooptare nei gruppi dirigenti del partito non solo gli operai e mantenere un saldo legame con il partito centrale per evitare pericolose derive verso un radicalismo che avrebbero favorito l’espandersi del terrorismo.
Il modello di riferimento del PCI napoletano era quello delle organizzazioni dell’Italsider e Alfa Sud che fino allora avevano dato i risultati importanti, anche rafforzando il partito elettoralmente sul territorio della provincia:
- Organizzazione forte del partito che coincideva con quella della CGIL;
- Dirigenti politici operai e impiegati formati da precedenti esperienze nel PCI;
- Orientamenti rivoluzionari – più di facciata che di sostanza – per facilitare l’inclusione delle giovani generazioni;
- Concentrarsi sugli spazi di potere del sindacato per gestire il consenso tra i lavoratori;
- Delegare il più possibile a strutture esterne del partito e del sindacato la responsabilità di scelte importanti e il rapporto con il management dell’azienda.
Il partito e il sindacato garantivano la continuità del sistema con la cooptazione negli organismi dirigenti cittadini e regionali dei militanti e sindacalisti affidabili e di lungo corso di quelle realtà che garantivano la tenuta organizzativa interna alle fabbriche e trainavano consenso politico/elettorale tra i lavoratori.
Questa modalità di scouting, per tutti gli anni 70 e ’80, funzionò perfettamente e avrebbe rappresentato una corsia d’accesso per militanti e dirigenti comunisti dell’Italsider e Alfa Sud alle posizioni apicali del partito e nelle istituzioni elettive.
La società e l’industria napoletana però in quegli stessi anni si trasformavano velocemente per effetto di una prima fase della deindustrializzazione. Quel rapporto sbilanciato del partito con le organizzazioni di quelle imprese che erano ancora ritenute il modello d’industria da salvaguardare a qualunque costo, fu uno dei più gravi errori del PCI napoletano, le cui conseguenze avrebbero pagato l’intera città negli anni successivi.
LA SEZIONE COMUNISTA AERITALIA
Agli inizi degli anni 70 i dipendenti del gruppo Aeritalia erano 7500, 2800 al Sud,con due stabilimenti a Capodichino e Pomigliano. La presenza comunista in fabbrica contava 7 iscritti, le assunzioni era rigidamente controllate dai notabili democristiani dell’area pomiglianese. Dopo pochi anni i vecchi militanti comunisti dell’AERFER, operai fortemente rappresentativi del territorio e di notevole spessore anche morale, come Antonio Oratino e Antonio Mele, avevano strutturato l’organizzazione della cellula PCI..
Dai primi anni settanta erano arrivati in azienda la generazione sessantottina, ingegneri aeronautici, progettisti e tecnici, molti dei quali l’azienda aveva inviato negli Usa dove avrebbero maturato le esperienze e conoscenze utili per consentire a essa di partecipare ai nuovi progetti aeronautici internazionali.
AERITALIA si preparava a diventare una vera azienda aeronautica; si costituiva la Direzione Tecnica con gli uffici inizialmente ad Arzano, e poi a Napoli, nel palazzo Fontana di Via Marina.
Dalla seconda metà degli anni 70’ anche la Direzione Tecnica fu trasferita a Pomigliano D’arco. La scelta si rese necessaria perché partiva il primo programma di produzione con Boeing e occorreva il contributo di quei tecnici che forse erano stati tenuti lontani dalla produzione anche per evitarne il coinvolgimento e la contaminazione ideologica con le lotte operaie.
Quella generazione di lavoratori in realtà era già contaminata dal “male oscuro” della politica, inteso come passione / sensibilità “totale” di cui si vorrebbe farne a meno. Quindi quando nella seconda metà degli anni 70 tutti gli uffici tecnici furono portati nel perimetro dello stabilimento ex Aerfer di Pomigliano D’Arco, il PCI e la CGIL dell’Aeritalia si ritrovarono tra le loro file un gran numero di militanti, preparati politicamente e altamente scolarizzati.
A dieci anni dalla fondazione dell’Aeritalia, nel 1979, i dipendenti del gruppo erano diventati 11.000, 1.000 erano impiegati e tecnici, 6.000 erano al Sud. Nel 1980 si costituì a Pomigliano D’Arco la sezione di fabbrica Aeritalia del PCI con un suo autonomo gruppo dirigente, prima l’organizzazione era solo una cellula non indipendente dalla struttura territoriale.
Dopo gli accordi industriali con i colossi aeronautici americani l’azienda cresceva rapidamente e in pochi anni arrivarono in fabbrica migliaia di operai e tecnici, fu assorbito l’impianto Ex FAG di Casoria e realizzato il nuovo stabilimento a Foggia.
“L’esperienza dell’Aeritalia va valorizzata – affermò Vincenzo Mattina a nome dei sindacati durante la cerimonia del decennale dell’azienda a Capodichino – per far sapere al mondo che Napoli e nel Mezzogiorno d’Italia vi sono lavoratori che hanno dimostrato di essere all’altezza di lavori importanti e di estrema complessità”.
La sezione del partito cresceva con l’azienda, oltre la tradizionale presenza nei reparti produttivi si era radicata una diffusa presenza dei comunisti nei nuovi uffici tecnici e tra gli impiegati.
Il gruppo dirigente era legittimato da rigorose consultazioni congressuali che garantivano la presenza equilibrata di operai e ingegneri, tecnici, quadri e addirittura manager.
Quadri di fabbrica furono inviati per alcuni mesi alla scuola di formazione politica del PCI di Frattocchie a Roma, diretta da Renzo Lapiccirella. Altri militanti della fabbrica furono impegnati alla Scuola di Amministrazione Pubblica organizzata dai comunisti napoletani a Castellammare di Stabia e diretta da Antonio Scippa, assessore al Bilancio del Comune di Napoli, in previsione di futuri impegni nelle istituzioni; la redazione napoletana de L’Unità decise di avere in azienda come corrispondente un ingegnere della Direzione Tecnica.
L’organizzazione aveva una rete capillare di militanti, simpatizzanti e di oltre 400 iscritti, era strutturata con una filiera di responsabili, nei reparti e nelle aree di progettazione di Pomigliano D’Arco, a Casoria e nei due impianti di Capodichino.
Non mancava una forte contrapposizione delle opinioni, ma, rarissimamente il confronto si trasformava in rotture politiche e personali tra dirigenti e militanti.
L’AZIENDA
AERITALIA era un gruppo industriale napoletano, con sede ufficiale e direzione generale a Fuorigrotta; tutto poi fu trasferito nel 1990 a Roma, quando si costituì Alenia Aeronautica.
Il mercato aeronautico si apriva a grandi opportunità di sviluppo e, prima, Renato Bonifacio, poi Fausto Cereti e Amedeo Caporaletti volevano trasformare la Società, nata dalla fusione della vecchia Aerfer con FIAT Aviazione, in una moderna azienda aeronautica.
Per raggiungere il risultato erano necessarie grandi risorse pubbliche, scelte industriali rischiose, enormi investimenti, grande fiducia e sacrifici. Il management cercava un modello condiviso di governo dell’azienda anche perché il peso politico e di mobilitazione del sindacato e del partito comunista era enorme per cui era indispensabile che le organizzazioni rappresentative dei lavoratori condividessero il progetto.
Per le maestranze si prospettava un futuro lavorativo sicuro in un’azienda e in un comparto industriale destinato a crescere. Per gli operai la qualità del lavoro era sicuramente diversa dalle linee di produzione dell’Alfa Sud e dell’Italsider, il management, i tecnici e progettisti sapevano che partecipare allo sviluppo di grandi programmi industriali avrebbe significato possibilità di carriera e l’opportunità di esperienze nei grandi gruppi aeronautici all’estero.
Per il territorio le ricadute erano importanti: dall’occupazione di giovani diplomati e laureati allo sviluppo dell’indotto aeronautico, che nasceva con piccole aziende – spesso messe in piedi da ex dipendenti della stessa AERITALIA – e che cresceva a Napoli e nella sua provincia.
LE ORIGINI DELLA ROTTURA CON IL PARTITO NAPOLETANO
La breve storia della sezione AERITALIA si consumò in questo scenario, quando divenne del tutto evidente che il lavoro politico non poteva ridursi ad attività di propaganda e alla rincorsa di consenso utile per le campagne elettorali.
La migliore stagione del sindacato In Aeritalia si era conclusa con gli anni 70. Era iniziata alcuni anni dopo la nascita dell’azienda, nell’aprile del 1972, con una grande manifestazione al Cinema Mediterraneo di Pomigliano D’Arco, poi con un convegno provinciale a Napoli sul settore aeronautico del novembre 76, passando per il momento più alto del ruolo del sindacato in fabbrica con la Conferenza dei Tecnici nello stabilimento Aeritalia del giugno del 1978 alla quale partecipò Bruno Trentin.
Nel corso del decennio il sindacato e i partiti di Sinistra avevano avuto un ruolo importante di sostegno ai diversi piani di finanziamenti pubblici dei programmi industriali dell’azienda. Dalla collaborazione con Boeing, la rimotorizzazzione del G222 per la commessa alla Libia e alla partnerschip con Aerospaziale per il programma ATR.
Lo scenario delle relazioni industriali mutava radicalmente dopo la Conferenza provinciale della FLM del maggio del 1979, sul futuro del comparto aeronautico, perchè con gli anni 80 lo sviluppo dell’azienda aveva necessità di essere governato e al management era sempre meno utile l’interlocuzione con un sindacato di fabbrica che delegava alle strutture centrali la gestione delle questioni complesse.
Nelle aziende del gruppo, complice le opportunità di gestire gli spazi di potere acquisiti, il sindacato, sempre più rinunziava ad un ruolo orientato agli interessi generali e di prospettiva e si rinchiudeva nel governo di organismi utili per il consenso, come le “paritetiche”(3) o le assunzioni.
La direzione aziendale si rinnovava con giovani manager come Angelo Guarini che dirigeva le Relazioni Industriali del GVT, riconosceva ai dirigenti di fabbrica del PCI competenza e rappresentatività per cui era del tutto naturale che cercasse spesso con loro il confronto diretto nella gestione di una grande azienda in rapida trasformazione.
Nessuno rinunziava alle sue prerogative eppure i funzionari provinciali del partito responsabili delle organizzazioni di fabbrica mostravano diffidenza, o perché erano esclusi da quel rapporto con l’azienda oppure perché non attrezzati culturalmente a interpretare quelle situazioni diverse dai paradigmi che avevano imparato a gestire.
Bisogna dire che quando il Pci nel 1991 si auto sciolse, e fu rimosso il grande contenitore ideologico, le vicende personali di quei funzionari di partito, dimostrarono quanta ipocrisia e malafede ci fosse nelle loro posizioni dogmatiche.
La storia dei comunisti AERITALIA è tutta dentro questa rappresentazione.
L’organizzazione interna continuò per alcuni anni a operare in autonomia, fece a meno del supporto dei dirigenti della Federazione napoletana e la frattura restò sotto traccia fino al 1986 e al XVII congresso del PCI napoletano.
L’EMARGINAZIONE
Nelle elezioni politiche del 1979 e 1983 erano stati inseriti nelle liste elettorali comuniste un operaio e un ingegnere della Direzione Tecnica AERITALIA. I due non furono eletti ma ottennero entrambi migliaia di preferenze.
Tali risultati avrebbero dovuto dare forza al gruppo dirigente della fabbrica, invece preclusero qualsiasi possibilità per i militanti della Sezione AERITALIA di essere eletti nelle istituzioni della Repubblica.
I comunisti dell’Aeritalia non potevano essere candidati al Parlamento, alle elezioni regionali o comunali delle grandi città perché rischiavano di essere eletti.
La prerogativa di decidere gli eletti nelle istituzioni della Repubblica era della Federazione e non degli elettori, infatti, nel 1984 quando i dirigenti comunisti dell’AERITALIA riuscirono nell’impresa di far passare negli organismi centrali una loro candidatura per le prime elezioni europee (era un ingegnere dell’azienda), senza alcuna spiegazione il nome fu cancellato la notte precedente alla presentazione della lista in tribunale.
Il punto di rottura tra i dirigenti AERITALIA e il Partito, comunque, si ebbe solo nel 1986 con il XVII congresso del PCI che lacerò profondamente la platea dei militanti del partito napoletano.
Si scontrò ferocemente l’ala ingraiana, guidata da Antonio Bassolino, con quella dei riformisti, come si chiamava allora il gruppo guidato da Giorgio Napolitano.
Prevalsero gli ingraiani che non fecero “prigionieri”; furono risparmiati solo quelli che Napolitano decise di salvare. Molti militanti ritenuti riformisti furono buttati fuori dagli organismi di governo del partito, e Salvatore Vozza, braccio esecutore degli ingraiani, che era anche responsabile per le fabbriche, pretese tra le altre esclusioni dai gruppi dirigenti quella della sezione AERITALIA che riteneva schierata con i riformisti.
In realtà non esisteva alcun rapporto organico dei dirigenti di fabbrica con personaggi o organizzazioni che si rifacevano alla “corrente” di Napolitano, i cui fedeli sostenitori, seppure politicamente sconfitti, grazie al loro leader trovarono il modo di ricollocarsi dentro e fuori dal partito.
L’esclusione dei militanti AERITALIA dal gruppo dirigente era stata voluta da chi aveva vissuto come umiliazione l’autonomia e la “presunzione” dei comunisti di quella fabbrica.
Uno stato d’animo che si era manifestato quando i dirigenti Aeritalia furono accusati dalla Federazione comunista napoletana di slealtà perché, a loro avviso, benchè niente lo dimostrasse, il gruppo dirigente di fabbrica non si era speso abbastanza contro il taglio dei punti di contingenza del governo Craxi.
IL DECOLLO – Il giornale di Fabbrica della Sezione PCI AERITALIA ( Link ai numeri disponibili e digitalizzati )
IL DECOLLO iniziò la pubblicazione nel 1983, all’epoca nessun altro giornale comunista era realizzato in aziende campane. Era stampato in tipografia e richiamava il vecchio giornalino ciclostilato della cellula comunista di fabbrica dei primi anni 70 di cui aveva ereditato il nome.
Il progetto non fu finanziato dalla Federazione del partito che lo ritenne costoso e troppo “impegnativo”/”pretenzioso”; i promotori del progetto, ciò nonostante, decisero di andare avanti con l’autofinanziamento e con il ricorso alla pubblicità.
La decisione di cercare finanziatori privati non fu una scelta facile, ma si dimostrò decisiva e sopratutto vincente, perché diverse attività private di Pomigliano D’Arco risposero positivamente aderendo alla campagna di raccolta pubblicitaria, e questo consentì alla redazione del giornale una completa autonomia.
Tra i dirigenti del partito ai quali era piaciuta l’idea e avevano aiutato la pubblicazione, si ricordano solo Berardo Impegno e Attilio Wanderlingh. Berardo, all’epoca consigliere comunale a Napoli convinse Mimmo Maresca a pubblicare inserti pubblicitari della COOP sul giornale.
Maresca era un dirigente della Lega delle Cooperative di Napoli che 1986 si suicidò dopo che fu raggiunto da una comunicazione giudiziaria per lo scandalo delle “Cooperative degli ex detenuti” di cui proponiamo tra le note una ricostruzione. (LO SCANDALO DELLE COOPERATIVE NAPOLETANE )
Attilio Wanderlingh, che era un affermato giornalista professionista ed era tornato a Napoli ed era all’Unità, convinse Antonio Polito, redattore della redazione napoletana del giornale, a firmare i primi numeri del DECOLLO.
In seguito, fu lui stesso a proporre che la pubblicazione della sezione Pci dell’Aeritalia uscisse come supplemento di NDR, una rivista culturale importante, diretta e pubblicata dallo stesso Wanderlingh che firmò poi tutti i successivi numeri del giornale di fabbrica.
Alla collaborazione iniziale con NDR segui anche quella con il giornale catanese, I SICILIANI, che cessò quando la mafia assassinò il suo direttore, Pippo Fava.
Il giornale dei comunisti dell’AERITALIA era stampato in oltre un migliaio di copie, dopo i primi mesi di rodaggio raggiunse una cadenza mensile e una distribuzione capillare in tutti gli stabilimenti campani del gruppo aeronautico.

Gli articoli erano tutti firmati, sia quelli della redazione sia quelli esterni; ogni numero ospitava sempre un intervento del gruppo dirigente centrale del partito. Questa disponibilità non aiutò le relazioni tra la redazione e la Federazione Provinciale del PCI che non sempre condivideva la scelta del dirigente che poi scriveva l’articolo politico di apertura.
Nei tre anni successivi, gli introiti delle vendite e l’apporto della pubblicità dei privati coprirono e superarono tutti i costi del giornale. Quando il gruppo dirigente di fabbrica uscì di scena e si chiuse il giornale, una parte dei fondi del DECOLLO fu utilizzata per dei gadget realizzati da Ferrigno, un artigiano dei pastori di San Gregorio Armeno. La statuina di un Pulcinella che leggeva il DECOLLO fu spedita o consegnata a tutti quelli che avevano collaborato con il giornale.
Anche l’uscita del numero zero di lancio creò non poche perplessità perché il giornale si aprì con un intervento del direttore del Gruppo Velivoli Trasporto, l’ing. Amedeo Caporaletti, manager notoriamente non vicino al PCI.

Nonostante le critiche e rilievi, dalla Federazione napoletana non arrivarono mai espliciti ostracismi al giornale. IL DECOLLO soffrì piuttosto di una disattenzione degli organismi dirigenti locali che forse diffidavano di quella pubblicazione i cui contenuti non erano condivisi con la Federazione stessa.
Il giornale riservava alla politica nazionale, regionale e del territorio uno spazio di quattro/cinque pagine, il resto delle ventidue complessive del fascicolo erano approfondimenti sui temi dell’azienda: il futuro del comparto aeronautico, le nuove tecnologie, la ricerca, l’innovazione, il ruolo dei quadri e tecnici. Molto spazio era riservato alle rubriche per i libri, il teatro e cinema.
Oggi sembra tutto scontato, sono argomenti comuni, eppure allora non era facile proporli in un giornalino di partito, e meno ancora lo era per una pubblicazione comunista di una fabbrica metalmeccanica.
Alcuni anni fa, l’Archivio storico della Fiom di Pomigliano d’Arco recuperò ed espose in una mostra le pubblicazioni delle grandi fabbriche dalla fine degli anni 60. La gran parte erano ciclostilati, poco più che volantini, la vita media era sempre stata di pochissimi numeri e i contenuti solo propaganda orientata per lo più agli operai.
Negli anni 80 solo i giornali dei comunisti di PIAGGIO e AERITALIA avevano adottato un modello di sostenibilità economica che garantiva anche la continuità alla pubblicazione. Il giornale dell’Aeritalia si era affrancato anche dai contenuti di mera propaganda anche perchè non favorivano le entrate della pubblicità.
All’Italsider non si era andati molto lontano dal “Il Bolscevico” e all’Alfa Sud di Pomigliano D’Arco, alcuni anni prima del Decollo, finanziato dalla Federazione di Napoli, era stato stampato “Il Serpentone” che uscì per una mezza dozzina di numeri.
Il DECOLLO aveva una sezione culturale curata da Nicola Marotta, Guido Di Paolo e Michele Fornaro che erano lavoratori dell’AERITALIA e riconosciuti artisti che si occupano di grafica, teatro, musica e spettacolo.
La copertina di ogni numero del giornale riproduceva una foto di Henri Cartier-Bresson, perché durante una mostra a Napoli delle opere del fotografo, era stata chiesta e ottenuta dall’agenzia che ne aveva i diritti, la possibilità di pubblicare gratis dodici foto che riproducevano ambienti del lavoro operaio.
Su Il DECOLLO scrissero tra gli altri, Biagio De Giovanni, Giuliano Cazzola allora dirigente CGIL, e in remoto collaborava – dettando per telefono i suoi articoli – lo scrittore Luigi Compagnone.
Rilasciarono interviste esclusive anche Pino Daniele, Roberto De Simone e il regista Ettore Scola.
Una libreria del Centro Storico di Napoli distribuiva copie e applicava sconti ai lettori del giornale.
Il Decollo, Walter Veltroni e Fabio Mussi
Ogni mese una copia era spedita alla Direzione del PCI, e dopo una decina di numeri la redazione fu invitata a Roma. A Botteghe Oscure ci fu l’incontro con un giovanissimo Walter Veltroni che, nominato da poche settimane responsabile per la comunicazione, voleva meglio conoscere il DECOLLO.
Il Partito voleva lanciare su scala nazionale le pubblicazioni minori: quelle di sezioni territoriali, di fabbrica e di piccole località. Per favorirne la nascita e la diffusione, Veltroni aveva ottenuto anche un investimento per allestire una piccola tipografia, con impianti del tutto nuovi, da destinare alle pubblicazioni locali di tutto il territorio nazionale.
Per i redattori de Il DECOLLO seguì nei mesi successivi un invito di Fabio Mussi a presentare il giornale di fabbrica in un convegno nazionale a Pisa. Era il gennaio del 1985 e la trasferta si prolungò per tre giorni perché la città toscana si svegliò coperta da tanta neve che fu impossibile per tutti rientrare a casa.
Il giornale dell’Aeritalia continuò a essere stampato da una piccola tipografia di Brusciano. I comunisti con quell’esperienza avevano inaugurato un efficace canale di raccordo con la comunità di fabbrica, e, infatti, la direzione aziendale, per volontà di Caporaletti, dal 1986, con un investimento di 200 milioni di lire, pubblicò per alcuni anni un proprio giornalino di quattro facciate per tutti i dipendenti. Il CRAL pensò di fare altrettanto con ALBATROS, un fascicolo che richiamava il formato e la grafica del DECOLLO.
Il logo del giornale dei comunisti dell’Aeritalia, AEROUCCELLO creato dal grafico Fornaro,è oggi molto noto nelle imprese e tra gli appassionati e gli operatori aeronautici.
E’ stato registrato da Aeropolis, ed è riprodotto in tutte le pubblicazioni dell’associazione napoletana dell’aerospazio che lo scorso anno ha superato il milione di lettori.
LA RICERCA SOCIOLOGICA SUI LAVORATORI AERITALIA
Erano passati cinque anni dalla sconfitta sindacale della Fiat. Nel pieno della vertenza, febbraio 1980, a Torino alla Conferenza nazionali dei comunisti furono presentati i risultati di una ricerca che avrebbero dovuto individuare e rappresentare le condizioni di lavoro e le opinioni dei lavoratori Fiat.

La ricerca era stata promossa al fine di dimostrare la validità delle tesi che il PCI e il sindacato torinese avevano condiviso durante la vertenza sindacale con il gruppo automobilistico.
Dopo pochi mesi ci fu la marcia dei quarantamila e quella fine della vertenza smentì clamorosamente i risultati del sondaggio del PCI torinese.
L’epilogo della vicenda Fiat e la sconfitta politica che ne conseguì per il partito e il sindacato, ebbero un peso enorme nella trasformazione delle relazioni industriali.
L’anno successivo il PCI decise di ripetere sia la conferenza dei comunisti Fiat che la ricerca sociologica, riconoscendo l’errore dell’analisi e dei dati prodotti da quella precedente perchè era stata condotta con approssimazione e orientata ad un campione di soli operai.
I comunisti dell’Aeritalia di Napoli, alcuni anni dopo, spinti evidentemente da una grande fiducia/presunzione nelle loro capacità, pensarono possibile mettere in piedi una ricerca di massa nella loro azienda che – considerando gli errori del progetto Fiat – servisse all’intero sindacato e al partito per capire come la modernizzazione stava cambiando radicalmente il paradigma della rappresentanza, del modo di vivere e di rapportarsi al lavoro nella fabbrica moderna.
Nella direzione Risorse Umane all’Aeritalia, l’organizzazione del lavoro era stata affidata a un nuovo ufficio, dove erano arrivati giovani sociologi, diversi di loro erano di simpatie o formazione comunista; furono tutti coinvolti nel progetto perché si voleva dare valenza scientifica e non solo politica al progetto.
Furono impegnati il direttore scientifico dell’IRES-CGIL, Enrico Pugliese, docente della Facoltà di Sociologia dell’Università di Salerno e Amato Lamberti docente della Facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli.
Dopo diverse riunioni fu decisa la roadmap e la timeline del progetto: l’iniziativa sarebbe stata della sezione di fabbrica del PCI, i professori universitari avrebbero lavorato ai questionari e analizzato i dati elaborati da un software statistico che solo Aeritalia aveva allora in Italia.
I ricercatori dell’IRES avrebbero pubblicato tutto il materiale dello studio.
La distribuzione e la raccolta dei questionari nei reparti e negli uffici l’avrebbero fatta i militanti della sezione che avrebbero dovuto individuare i lavoratori con le caratteristiche richieste dai sociologi nel modello del campione da intervistare.
L’iniziativa era sicuramente ambiziosa e rischiosa; coinvolgeva troppe persone e l’azienda non avrebbe facilmente acconsentito che un gran numero di suoi dipendenti fosse impegnato nell’iniziativa, ragion per cui, la direzione aziendale e la Federazione comunista napoletana furono ufficialmente informate del progetto quando era tutto pronto e le locandine erano state affisse in tutte le bacheche sindacali dell’AERITALIA.
Il progetto durò un intero mese, maggio 1985, e nelle attività furono coinvolti un quarto dei dipendenti totali dell’azienda, un migliaio tra operai, impiegati e dirigenti, selezionati per età, esperienze lavorative, funzione e titolo di studio.
I risultati i commenti e le valutazioni, che sono ancora disponibili, furono analizzati da Lamberti e Pugliese; durante la presentazione dei dati fu detto che per gli obiettivi, per il campione e le modalità con cui era stata condotta la ricerca, quel progetto aveva non solo affidabilità e valenza scientifica ma si trattava sicuramente della prima esperienza del genere in Italia.
Il gruppo dirigente della Sezione di Fabbrica decise di coinvolgere la Direzione Nazionale del PCI, anche per dare maggiore visibilità alla ricerca. Fu ottenuto un incontro con il sociologo Aris Accornero che presiedeva il CESPE (Centro Studi di Politica Economica del Pci), al quale fu chiesto di valutare i risultati e partecipare alla presentazione ufficiale.Quando ad Accornero furono presentati le tabelle e i grafici ottenuti dal SAS@, il software statistico che aveva elaborato i dati, la risposta fu che lui non era abituato a lavorare con disegni di barre e torte colorate prodotte da un elaboratore elettronico.
Non esistevano ancora l’informatica di massa e i personal computer.
I risultati dello studio in AERITALIA furono invece ripresi poi da riviste specializzate e discussi in diverse università del Paese, i sociologi e gli specialisti ritennero che da quella ricerca fossero emersi aspetti nuovi e di notevole interesse sull’orientamento delle nuove generazioni di lavoratori delle fabbriche metalmeccaniche.
Una pagina nuova della storia non solo del Mezzogiorno si intravedeva in quella ricerca nella quale emergevano orientamenti del movimento operaio che lasciavano sullo sfondo lo scontro ideologico perché l’organizzazione taylorista cedeva il passo a un modello in cui anche il lavoratore ritrovava spazio per identificarsi.
A Napoli, alla manifestazione pubblica promossa dal PCI Aeritalia, durante la quale furono presentati gli elaborati, parteciparono lavoratori dell’azienda, studenti e specialisti universitari, una rappresentanza ai massimi livelli dell’azienda, guidata dall’Ing Caporaletti, e diversi sindacalisti, tra i quali Giancarlo Canzanella, Direttore IRES e Gianfranco Federico, sociologo e segretario provinciale della Fiom.
Nessuno dei dirigenti cittadini o provinciali del PCI invece ritenne di partecipare a quell’evento che si svolse nella sala dei convegni del Jolly Hotel di Piazza Municipio, in pratica a pochi metri dalla Federazione del PCI di Via Dei Fiorentini.
EPILOGO
Ai comunisti dell’AERITALIA si poneva il quesito se trasferire nell’azione politica gli orientamenti che erano emersi a sorpresa anche nell’inchiesta, oppure, continuare con quella suggerita dalla narrazione della cultura comunista.
Il partito napoletano era fortemente orientato da una formazione operaista; decidere di guardare avanti avrebbe significato per il gruppo dirigente Pci dell’azienda di Pomigliano D’Arco l’isolamento dal vertice territoriale. L’epilogo non poteva essere che quello che poi ci fu: l’abbandono del gruppo dirigente dall’impegno politico per quello lavorativo e professionale e lasciare in un angolo della memoria quell’esperienza che pure aveva segnato tutti loro.
Il nuovo gruppo dirigente della fabbrica che subentrò era molto rappresentativo del territorio di Pomigliano e paesi circostanti e rapidamente si allineò alle posizioni politiche della Federazione di Via Dei Fiorentini.
Di quella vicenda, di quando ilavoratori comunisti avevano avuto la pretesa di governare la fabbrica, si riparlò nei primi anni 90, quando, in una situazione profondamente mutata, l’azienda aveva deciso un pesante ridimensionamento degli impianti napoletani.
Si scatenò a Pomigliano D’Arco un’aspra vertenza sindacale, lo scontro degenerò in una lunga stagione di blocchi stradali e occupazione dello stabilimento di Pomigliano D’Arco; allora chi era stato tra i protagonisti di quella passata stagione dei comunisti della fabbrica, almeno quelli che avevano posizioni di rilievo nel management del gruppo aeronautico, furono oggetti di feroci e gravi attacchi personali.
La natura dello scontro sindacale, che conteneva anche tutta l’amarezza e la delusione personale e ideale di molti militanti comunisti e dirigenti sindacali della CGIL, portò alcuni di questi ad additare come nemici e traditori coloro che i loro stessi ideali li avevano vissuti e condivisi nello stesso progetto politico.
Quella dell’Aeritalia è una storia minore, piccola, e tuttavia gigantesca di fronte alle vicende della politica degli ultimi anni e alla miseria umana dei personaggi d’operetta che esprime ciò che resta ancora in vita di quella storia che ha visto milioni di persone, e non solo lavoratori dell’industria, cercare riscatto personale e sociale.
Antonio Ferrara (3)
Napoli 25 gennaio 2021
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Napoli anni 80, lo scandalo delle Cooperative degli ex detenuti
La mattina del 26 settembre 1986 uno stimato dirigente della Lega delle Cooperative, Mimmo Maresca, si uccise buttandosi nel vuoto dal ponte della stazione della Circumvesuviana di Seiano. Era un militante comunista trentatreenne, padre di una bambina. Un giovane quadro politico su cui aveva investito il partito e la Lega delle cooperative, ritenuto vicino a Berardo Impegno, consigliere comunale e leader emergente nel partito comunista napoletano.
Quella tragedia amplificò l’attenzione e l’interesse dell’opinione pubblica sullo scandalo politico e l’inchiesta della magistratura napoletana sulle “Cooperative degli ex detenuti”. Dalle indagini della Procura emerse un sistema di corruzione e collusione tra classe politica e il malaffare che trovò conferma, negli anni successivi, in altre inchieste sulla ricostruzione post terremoto.
In quella vicenda – che per dimensioni fu la prima azione giudiziaria in Campania prima di tangentopoli – secondo i magistrati, erano emerse gravi responsabilità penali di numerosi dirigenti delle cooperative e politici napoletani.
Maresca era un funzionario della Lega delle Cooperative, e anche a lui fu inviata una comunicazione giudiziaria per truffa e associazione per delinquere di stampo camorrista.
E’ impossibile affermare con certezza cosa lo indusse al suicidio, ma è difficile immaginare che quel gesto estremo non sia stato una conseguenza del suo coinvolgimento in quella vicenda giudiziaria. Maresca, come sostenuto da più persone, fin dall’inizio dell’inchiesta aveva chiesto ai magistrati di essere convocato per chiarire la sua posizione, la lunga e inutile attesa di una sua convocazione fu probabilmente causa di un crescente malessere che evidentemente soppresse la sua volontà di vivere.
LA COMMISSIONE PARLAMENTARE DEL 2020 E CONSIDERAZIONI SUL SUICIDIO DI MIMMO MARESCA
Dalle indagini e ricostruzioni della magistratura non emerse un coinvolgimento di Maresca tale da giustificarne il suo gesto estremo.
L’avvocato Antonio Briganti, legale del giovane dirigente della Lega, dichiarò che il suo difeso «non si occupava di contabilità, non maneggiava denaro e aveva chiesto al magistrato un interrogatorio a chiarimento, era convinto di dimostrare la sua estraneità alla vicenda ma non riusciva a sopportare l’aleggiare del peso dei sospetti e la lentezza dell’inchiesta».
Maresca fu vittima di un meccanismo di cui rappresentava una pedina poco significativa, questa verità, la riconosce anche una relazione di minoranza della Commissione parlamentare sulla criminalità organizzata in Campania depositata in Parlamento nell’ottobre del 2000: “Le cooperative – si legge nel documento – erano state rigidamente suddivise tra i vari partiti, un’organizzazione capillare dove però inevitabilmente si era infiltrata la camorra, Maresca che era una persona perbene si trovò per coerenza e militanza politica dentro un ingranaggio inesorabile che lo indusse a porre fine alla sua esistenza”.
LA CITTA’ DEI PRIMI ANNI 80’ E LE COOPERATIVE DEGLI EX DETENUTI
La tragedia del suicidio di Maresca riporta quindi a quell’inchiesta sulle cooperative degli ex detenuti. Una vicenda iniziata nel 1981 quando i partiti napoletani e l’amministrazione di Maurizio Valenzi concordarono con il Governo una misura per arginare il crescente disagio sociale nei quartieri poveri della città.
Quel provvedimento voleva solo essere una risposta, in qualche modo anche innovativa a un problema che nel nostro Paese non ha mai trovato, nemmeno dopo tanti decenni una soluzione. Il progetto doveva consentire il reinserimento nella legalità di larghe fasce di napoletani che avevano pagato con la galera i loro precedenti errori.
Per capirne al fondo le motivazioni di quella decisione politica coraggiosa e molto rischiosa, è necessario inquadrarla in quel momento storico drammatico che viveva Napoli e l’intera Campania, si era ad appena un anno dal terremoto dell’Irpinia e nel pieno della gestione straordinaria di Giuseppe Zamberletti.
Nel 1980 la città era pesantemente colpita da eventi drammatici, i napoletani per la prima volta avevano tralasciato anche la “guerra” dei botti a San Silvestro. Non era successo nemmeno durante la guerra.
La strategia eversiva vincente.
Nei mesi successivi al terremoto la tensione e il disagio in città erano altissimi. Il clima alimentava fenomeni d’illegalità e favoriva la strategia del terrorismo, dopo che le varie sigle locali si erano aggregate nelle Brigate Rosse, l’eversione agiva con una chiara modalità mirata ad acquisire consenso nelle aree di maggior disagio.
Nel giugno di quel 1981 le Br rapirono e gambizzarono l’assessore comunista all’Urbanistica e preside di Architettura, Uberto Siola. L’assessore era ritenuto, a giusta ragione, una figura chiave della ricostruzione post terremoto. I brigatisti minacciarono d’intensificare le azioni militari e nei loro proclami di rivendicazione chiesero e ottennero dalle istituzioni enormi aiuti alimentari per i terremotati e i poveri della città.
In aprile a Torre del Greco, gli stessi terroristi sequestrarono l’assessore regionale all’Urbanistica Ciro Cirillo. Il personaggio non era certo tra i politici amati dai napoletani che lo ritenevano l’esponente democristiano portatore d’interessi del mondo della speculazione e del clan dei Gava.
Le Brigate Rosse gestirono al meglio il rapimento Cirillo. Dopo la lunga e nota trattativa con lo Stato Italiano e il partito democristiano, reso possibile dalla mediazione della Camorra cutoliana, i terroristi incassarono enorme quantità di denaro pubblico che, successivamente, si appurò fornito da imprese e personaggi che parteciparono alla ricostruzione delle zone terremotate.
I clan camorristici incassano dalla mediazione miliardi di lire e Cutolo si trovò protagonista anche sullo scenario della grande politica nazionale.
Le Br, ottennero dal rapimento i soldi con cui finanziare le loro imprese e la loro organizzazione e lo Stato italiano, le istituzioni della Repubblica, la sua classe politica nazionale e napoletana, persero la faccia e la legittimazione.
I fondi della ricostruzione erano ormai un obiettivo della criminalità organizzata e Napoli, con la sua naturale energia eversiva alimentata dal disagio sociale, rappresentava una grande opportunità per le organizzazioni terroristiche.
Il declino della città sembrava inarrestabile e nel disagio sociale crescevano le forze antagoniste che insediarono nuclei, circoli e sedi politiche in città, dal Vomero, Fuorigrotta, Bagnoli, Forcella al Casale di Posillipo e nei quartieri della periferia di tradizione operaia.
La città era prostrata, l’economia era a pezzi, gli iscritti al collocamento erano più di centomila, e solo nel 1978 il parlamento approvò la legge 285 che prevedeva risorse e soluzioni innovative a sostegno dell’occupazione giovanile. In quei mesi in tutta la regione e nell’area metropolitana ai disoccupati si aggiungeva il dramma di centinaia di migliaia di senzatetto. In città cresceva il carovita e si diffondevano nei quartieri popolari le speculazioni e le frodi in commercio di merci inviate ai terremotati.
Nei primi otto mesi del 1981, Napoli contò 148 i morti ammazzati e i disoccupati assalirono la Camera del Lavoro, furono loro e non i fascisti di oggi a devastare gli uffici del sindacato.
Lo scenario era sempre più ingovernabile e l’intreccio con scambi di “favori” fra terrorismo e malavita organizzata dilatava lo spazio a poteri illegittimi.
I partiti napoletani erano inabissati e allo sbando, intimoriti e con le spalle al muro, mentre i più furbi dei dirigenti politici, anche della sinistra, si attrezzavano per partecipare all’arrembaggio ai fondi per la ricostruzione.
In città scoppiavano continuamente scontri e gravi incidenti tra chi aveva un lavoro e lo difendeva, e chi lo cercava con la forza della disperazione.
L’ordine pubblico era sconvolto e i Consigli di Quartiere erano stati spinti in prima linea dall’amministrazione comunale. Erano privi di reali poteri e dovevano dare risposte a domande di primaria assistenza dei cittadini e arginare le pressioni popolari sul Palazzo San Giacomo.
Era evidente che la tenuta dello Stato era fortemente esposta perché quella disperazione facilmente avrebbe trovato sbocco in forme di alleanza politica e sociale tra vaste aree della popolazione e le organizzazioni terroristiche.
LE COOPERATIVE DEGLI EX DETENUTI
La classe dirigente locale e nazionale era consapevole dei rischi che correva l’ordine pubblico e lo Stato democratico, ma, com’è sempre successo nella storia, la paura non e mai una buona consigliera. Si decise allora di mettere in campo un piano di lavoro per i disoccupati delle liste di lotta e per gli Ex detenuti dei quartieri popolari. Il provvedimento avrebbe dovuto riportare in un perimetro legale larghi strati di cittadini che la crisi aveva trascinato in un confino borderline con la criminalità.
Quella decisione – la Prefettura all’epoca era retta da Riccardo Boccia, poi nominato Alto commissario contro la mafia – come rilevò la magistratura, aveva consentito alla criminalità organizzata di accedere direttamente alla gestione di risorse pubbliche e ne fece, di fatto, un soggetto politico, di cui le istituzioni, nel futuro, difficilmente avrebbe potuto farne a meno. Nell’inchiesta un mandato di cattura raggiunse anche Salvatore Giuliano, il «padrino» di Forcella che era nelle coop di ex detenuti.
Un errore imperdonabile per i partiti che inaugurò una lunga stagione di cedimenti, e poi di complicità e compromissione della classe politica – non solo napoletana – con il malaffare.
IL PROGETTO
Il Governo nazionale stanziò per il piano delle Cooperative degli Ex detenuti 240 miliardi di lire – di fatto negli anni furono 280 i miliardi erogati da Comune e Provincia di Napoli – e furono progettati lavori socialmente utili da assegnare a cooperative di disoccupati e a ex detenuti. Le cooperative avrebbero dovuto realizzare interventi di risanamento dei quartieri, opere gestite e controllate dalle grandi centrali regionali delle cooperative, di fatto quindi da tutti i partiti.
In poco tempo le cooperative s’ingolfarono di altre liste fino a contenere 4.600 disoccupati, più o meno, organizzati, molti dei soci con precedenti penali.
Il Presidente della Lega che si richiamava alla sinistra napoletana era allora un esponente di primo piano del PCI, Ricciotti Adinolfi in quale non condivise dall’inizio quell’iniziativa e fu sostituito con l’architetto Luciano Miraglia, altro personaggio finito tra gli arrestati e indicato dal Pci napoletano.
Nei mesi successivi, dopo una presa di distanza tardiva di Gerardo Chiaromonte, anche molti dirigenti locali nelle riunioni chiuse del partito si espressero molto criticamente su quell’iniziativa dell’amministrazione comunale.
Il progetto delle cooperative invece deragliò dopo alcuni anni dal suo esordio, quando scattarono le indagini a seguito – secondo la stampa dell’epoca – di elementi raccolti durante le indagini sull’assassinio del giornalista napoletano Giancarlo Siani.
Da quell’inchiesta, che impegnò a tutto campo le forze dello Stato, emersero irregolarità, tangenti ai partiti e la conferma che la famiglia camorrista dei Giuliano di Forcella egemonizzava e gestiva un’estesa platea di disoccupati delle cooperative di ex detenuti.
L’inchiesta fu affidata al magistrato Guglielmo Palmeri dell’ufficio istruzione del tribunale di Napoli che nel corso degli anni successivi portò a sentenza il dossier.
Il magistrato non era nuovo a inchieste spinose, si era occupato del clan Gionta, la famiglia di Torre Annunziata che controllava tutte le attività economiche sulla costa vesuviana.
La verità, quella vera e completa su tutta quella vicenda, forse non è mai emersa del tutto anche perché quella storia, tutto sommato solo napoletana, divenne ben presto poco rilevante rispetto agli eventi che in rapida e drammatica successione disorientavano l’opinione pubblica e trasformarono radicalmente l’assetto politico e sociale del nostro Paese.
LE RICOSTRUZIONI DELLO SCANDALO DEGLI EX DETENUTI
L’Unità affida l’inchiesta sulle cooperative prima a Luigi Vicinanza poi anche a Rocco Di Blasi, in uno degli articoli pubblicati si legge che “nel primo periodo della storia delle cooperative, dall’81 all’83, secondo gli Inquirenti, le coop avrebbero falsificato fatture relative a contratti con gli enti locali (Comune e Provincia) per i quali svolgevano lavori socialmente utili”. “Dalla fine dell’83 al marzo ’84 tutto sarebbe filato liscio in quanto le cooperative erano in cassa integrazione”. “Dall’84 fino ad oggi 1986 invece i contratti con gli enti locali si sarebbero trasformati in convenzioni; in questo periodo la truffa è crescita di entità poiché le cooperative hanno trattenuto illegalmente il 51%”.
IL MECCANISMO DELLA TRUFFA
Alcuni particolari del meccanismo della maxitruffa furono spiegati alla stampa dallo stesso giudice istruttore «E’ stato sperperato — sostenne il magistrato — un numero enorme di denaro». «Svariati miliardi con un uso perverso del meccanismo del 51%». «Nelle convenzioni stipulate da Comune e Provincia di Napoli con le tre centrali della cooperazione (Lega, Confederazione e Associazione) era previsto il versamento dello stipendio per ogni singolo socio, di un con tributo del 5% per le spese generali di organizzazione e di un’ulteriore quota del 51% per la copertura all’’Inps e all’Inali degli oneri sociali».
Nel Mezzogiorno, sostenne il giudice per chi opera «la legge prevede agevolazioni: invece del 51% basta pagare il 28%». «Allora, — continua il giudice Palmeri — nei bilanci avrebbe dovuto esserci la giustificazione dell’uso della differenza di denaro Incassata e non versata, di questo invece non c’è traccia: dove sono finiti i soldi?». «In parte se li sono messi In tasca loro, i capi delle centrali napoletane, sul resto non posso dir nulla. Vedremo dove arriveranno le Indagini».
PERSONAGGI COINVOLTI NEI PROVVEDIMENTI DELLA MAGISTRATURA
Tra maggio e ottobre del 1986 il magistrato emise numerosi provvedimenti e ventotto mandati di cattura, alcuni indirizzati a personaggi noti della politica e della cooperazione. Tra i nomi maggiormente coinvolti nell’inchiesta quello del sindaco di Procida, Vincenzo Esposito socialista ritenuto vicino all’assessore Giulio Di Donato, Gabriele Airola, Luciano Miraglia, Bruno Fanelli, Antonio Fusco e Raffaele Beato vicesindaco socialista di Portici. Le porte di Poggioreale si aprirono anche per il consigliere comunale Aldo De Rosa, Marco Nicola Mazzella Di Bosco presidente di una coop di ex detenuti. In galera finirono anche Lucio Gallo, Luigi Reale, Antonio Chiarella ex assessore del Psdi, Francesco Capacchione e Cosimo Barbato, già assessore democristiano al Comune di Napoli, tutti delle coop bianche. Una comunicazione giudiziaria per ricettazione e associazione per delinquere di stampo mafioso raggiunse il sub commissario della federazione socialista di Napoli, Freddy Scalfati. Il magistrato dopo un sopralluogo nella sede del Psi, in via Marchese Campodisola, decide per l’arresto del segretario amministrativo Nicola Canciello e del sindacalista della Uil, Vincenzo Siciliano. Fu fermato per reticenza il consigliere provinciale comunista di Avellino, Gerardo Moscariello.
Quando il giudice istruttore nel corso dell’inchiesta sulle cooperative inviò quattro comunicazioni giudiziarie per favoreggiamento anche al presidente nazionale della Lega delle cooperative Onello Prandini, al vicepresidente Umberto Dragone, a Luigi Rosafio, membro dell’ufficio di presidenza, e Mauro Nocchi, consulente legale dell’organizzazione ritenendo che i «vertici» nazionali della Lega fossero informati di quanto accadeva a Napoli. Immediata la reazione della struttura nazionale che prese le distanze dal gruppo dirigente dell’organizzazione napoletana.
IL PARTITO COMUNISTI AFFRONTA LO SCANDALO
Il Pci e molti suoi militanti napoletani per la prima volta erano nel mirino della magistratura e a Roma al centro di pesanti critiche nei vertici nazionali.
Nel mese di marzo del 1986 il partito in città aveva celebrato i congressi ed eletto gli organismi dirigenti. Il caso giudiziario non era ancora esploso.
Alcuni mesi dopo, con lo scandalo si aprì una riflessione fortemente critica sui rapporti tra Lega e i partiti della sinistra. Il Psi era da anni una disincantata forza di governo avvezza alle pratiche di gestione del potere, i comunisti iniziavano allora la marcia all’omologazione e quell’inciampo sicuramente avrebbe avuto per loro un costo molto alto.
I vertici nazionali pretesero scelte radicali e molti invece i dirigenti locali delle organizzazioni della cooperazione furono rimossi, le strutture della Lega furono commissariate, ma, tuttavia, nessuna responsabilità politica di dirigenti locali venne fuori con chiarezza.
La vicenda aveva scosso profondamente anche la base del partito e in un drammatico comitato federale, a fine ottobre, il segretario provinciale, Umberto Ranieri, nella sua relazione non minimizzò la gravità di quanto era accaduto, anche se rivendicò l’estraneità del partito in quanto tale al malaffare, e aggiunge: «Non ci siamo resi conto tempestivamente di quanto stava avvenendo». «È stato un errore politico serio, forse il più grave di tutti».
A quella riunione partecipò anche Maurizio Valenzi che nel 1981 era sindaco della giunta che concepì la misura per gli ex detenuti. Il quale, quando intervenne nel dibattito, rilanciò attaccando e senza alcuna sfumatura che lasciasse intendere una difesa del suo operato e della giunta, si soffermò in descrizioni sulle drammaticità della situazione cittadina e rivendicò il ruolo della sua amministrazione nell’affrontare le emergenze, «con la 285, seimila giovani sono stati assunti dal Comune». «Il problema vero è che a Napoli si deve uscire dalla cultura dell’emergenza».
Era volontà del gruppo dirigente napoletano di chiudere con quella storia e con le lacerazioni sotto traccia, bisognava salvare “la ditta”, per cui durante le dodici ore filate di dibattito e nei trentacinque interventi in quella riunione nessuno evidenziò esplicitamente e direttamente responsabilità politiche di alcuno, meno che mai dell’ex sindaco e dei suoi colleghi amministratori.
La mattina dopo il partito archiviava il dossier che passò nel cassetto delle storie dimenticate.
Sono trascorsi quasi quarant’anni, tutto è cambiato ed è diventato altro, eppure molti aspetti di quella vicenda sono ancora in quello stesso cono d’ombra di allora. Nessuna discussione franca ha mai affrontato le responsabilità politiche e soggettive di amministratori e dirigenti politici del Pci e Psi, mentre, forse averlo fatto allora, quando poteva essere utile, avrebbe aiutato la classe dirigente della sinistra napoletana a evitare la sua deriva successiva.
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ANTONIO BASSOLINO E “LA TERRA NOSTRA”
Da mezzo secolo Antonio Bassolino è la figura di maggior rilievo della sinistra napoletana, Nelle scorse settimane non gli è riuscita l’impresa di ritornare alla guida della città, e recentemente, forse a supporto della sua candidatura a sindaco, ha pubblicato un libro nel quale ha riproposto le vicende della storia politica recente della città e quelle che l’hanno visto protagonista.
Il libro, a nostro avviso, è improponibile, Bassolino poteva presentarsi in modo diversi e meno “politicistici” e lasciando da parte quei suoi ragionamenti che volano lontano e forse per mestiere anche troppo alto, come se ancora avesse incarichi istituzionali e rapporti politici di cui tenere conto.
Anche quando racconta d’incontri con militanti e comuni cittadini, Bassolino, forse senza nemmeno avere l’intenzione di farlo, riduce tutto a un’autocelebrazione.
Gli ultimi venti anni del PCI a Napoli, a partire dalla stagione dei successi, al terremoto e al terrorismo, furono anni terribili e straordinari per la città e il partito. Di quella storia, Bassolino è stata una figura chiave. Quando si consumò la vicenda di cui ci occupiamo e fu deciso il progetto delle cooperative dei detenuti napoletani, era il segretario regionale, stimato e in ascesa dirigente nazionale del Pci, come lui stesso afferma nel suo ultimo libro. La visibilità, e quindi anche le responsabilità, che aveva allora sui fatti della politica e amministrativi della città, oggi aiuterebbe a ricostruire una narrazione serena di quella e di tante altre vicende della storia recente della città. (Ritorna all’articolo su Aeritalia)
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Bassolino TERRA NOSTRA Napoli, la cura e la politica Marsilio 2021 (Ritorna alla nota su libro )
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Relazione sullo Stato della Lotta alla Mafia presentata alla Camorra alla Camera dei Deputati dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta il 22 ottobre 2000. Ritorna alla nota sulla vicenda Maresca
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Altre Note
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- Le tesi riportate in questa nota sono la ricostruzione è l’interpretazione dei fatti del tutto personale dell’autore. E’ benvenuto qualsiasi contributo di conoscenza e di analisi di chi è informato sui fatti narrati. (Ritorna all’articolo )
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- L’autore del testo non è uno storico, è un giornalista, analista di mercato aeronautico e presidente dell’associazione Aeropolis – E’ stato Segretario della Sezione PCI AERITALIA (1982-86) e nella seconda metà degli anni 2000, segretario di circolo, dirigente nazionale e regionale per i Democratici di Sinistra. Nel testo, per scelta di chi scrive, i riferimenti a persone sono solo personaggi pubblici.
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- Commissioni tra direzione aziendale e delegati sindacati dove si decidevano passaggi di livelli, trasferimenti e mobilità, prevalentemente degli operai(Ritorna all’articolo)